La Val d'Illasi, una zona a
est di Verona, comunicante nella parte orientale con le doc Soave e
Lessini Durello, non fa parte dell'area cosiddetta "classica"
dell'Amarone, che comprende località come Negrar, Fumane e Novare. Romano
Dal Forno, nato nel 1957 a Capovilla, a pochi chilometri da Illasi, è
cresciuto a stretto contatto con il mondo agricolo; la sua famiglia
produceva vino già da tre generazioni. A quel tempo lavorare in vigna
significava enorme fatica e poche soddisfazioni, le uve venivano conferite
alla cooperativa ed il ricavato era appena sufficiente al fabbisogno
familiare. Dopo un periodo molto combattuto e incerto, all'età di 22 anni
conobbe Giuseppe Quintarelli che lo sbalordì con i suoi vini. Fu per lui
una rivelazione, una spinta vitale, capì che quella era la sua strada. Ma
i problemi da affrontare erano immensi, i pochi ettari di vigneto di
proprietà erano stati sfruttati per anni perché potessero produrre più
uva possibile e capiva che con un sistema del genere non avrebbe mai
potuto fare vini importanti. Inoltre Quintarelli era convinto che la Valle
d'Illasi fosse buona solo per coltivare mais.
Ma Romano volle tentare, la
sfida era troppo avvincente; cominciò a lavorare, aiutato dalla moglie,
la sua unica esperienza era quella fatta direttamente in vigna, non era un
enologo, né un agronomo o un tecnico e i suoi colloqui con il maestro,
pur se illuminanti, non potevano essere sufficienti ad indirizzarlo con
precisione sulle scelte giuste. I primi anni furono molto difficili,
dapprima tentò di ridurre drasticamente la produzione d'uva per pianta,
ma ottenne l'effetto di avere grappoli dagli acini enormi e gonfi,
annacquati. Successivamente si rese conto che le piante, essendo abituate
da anni alla sovraproduzione non potevano di punto in bianco interrompere
l'iperlavoro a cui erano abituate, bisognava fare le cose per gradi, con
estrema pazienza. Nel frattempo frequentò la Scuola Agraria e col passare
degli anni cominciò a comprendere come andava trattato il vigneto;
comprese che la pratica dell'appassimento delle uve, fino ad allora
utilizzata da tutti i vignaioli a fini correttivi, era invece elemento
fondamentale per produrre vini importanti e caratteristici di quel
territorio. Mano a mano aumentò la fittezza d'impianto, era chiaro che si
doveva arrivare a grandi concentrazioni estrattive.
La prima annata
significativa fu la '83 che gli permise di iniziare a farsi conoscere. Per
molti anni produsse i suoi vini in modo artigianale, senza attrezzature
adeguate, finché, nel '90, decise di rischiare il grande passo: rinnovare
completamente la cantina. Il fatturato ammontava a soli 70 milioni e
l'investimento per i nuovi macchinari richiedeva 1 miliardo e 300 milioni.
Il rischio era enorme, ma Romano sapeva che valeva la pena tentare. Era
l'unico modo per fare un concreto passo in avanti. L'appassimento delle
uve è una fase molto delicata, se non ci sono le strutture adatte, si
rischia di perdere l'intera produzione. Nel '95, ai 12 ettari vitati di
proprietà, si aggiunsero 8 ettari del cognato e, nel 2000, altri 5 di un
cugino, che gli consentirono di lavorare intensamente nella
sperimentazione. La fittezza d'impianto era arrivata, in alcuni casi, fino
a 11.000 ceppi per ettaro. L'obiettivo nei prossimi 5 anni è quello di
avere una fittezza media di 11-13.000 piante per ettaro che garantiscano
una produzione annua di 40.000 bottiglie di Valpolicella e 15-20.000 di
Amarone.
A Romano Dal Forno vanno
molti meriti: la scelta di eliminare la Molinara dall'uvaggio
dell'Amarone, un vitigno che ha dimostrato di avere chiari limiti; la
riscoperta dell'Oseleta, impiantata nel '91, sulla quale ha potuto
effettuare molte sperimentazioni e che oggi fa parte in modo determinante
delle uve che confluiscono nell'Amarone; la radicale trasformazione del
Valpolicella, un vino che fino a qualche anno fa veniva considerato adatto
alla pizza dagli stessi addetti ai lavori e che, grazie ai suoi sforzi, è
diventato complesso, morbido, ampio, paragonabile per struttura e finezza
ad un Brunello, ma con in più un colore vivissimo, fino ad ora
impensabile. Ne abbiamo provato due versioni: la '95(14.5°) che presenta all'olfatto una notevole concentrazione
aromatica, con note marcate di ciliegia e vaniglia, sottobosco e spezie
dolci; in bocca esprime già piena morbidezza ed armonia, il frutto è
sontuoso, avvolgente e la persistenza lunga e senza amaritudini. Il Valpolicella
'97 (14.5°) mostra una struttura più imponente, l'annata
eccezionale ne ha marcato i tratti crudi, di estrema gioventù; il colore
si presenta di un bel rubino fitto e scuro, con chiare venature purpuree,
il naso è ancora sigillato, lascia però intravedere grandi possibilità
evolutive, ora è un po' dominato da note verdi e dalla presenza del
legno, ma col tempo offrirà una maggiore complessità e longevità della
versione '95; una volta assaporato si mostra in tutta la sua stoffa ed
eleganza, ricchezza di polpa, sapidità e tannini appena acerbi ma
finissimi. Un buon affinamento in bottiglia per qualche anno gli
consentirà di esprimere appieno le sue grandi qualità. Due grandi vini,
un tempo impensabili. Pensate all'imperversare negli ultimi venti anni dei vini da
tavola, che si sono prepotentemente sostituiti alle doc, per una scelta
produttiva mirata ad una maggiore libertà di movimento che, se da una
parte ha ottenuto il risultato di guadagnare grosse fette di mercato,
soprattutto all'estero, dall'altra non ha permesso una giusta
rivalutazione del territorio e di quei vitigni che sono patrimonio storico
inespresso e quasi sconosciuto, strada che invece ha coraggiosamente
intrapreso Romano Dal Forno, proprio con il Valpolicella, riuscendo, pur
mantenendosi all'interno dei regolamenti del disciplinare, a dargli nuova
linfa e vigoria. Un altro merito che gli va riconosciuto è l'aver creduto
nel Recioto, vino rosso dolce, quasi dimenticato ed unico esempio di
incredibile valore in questa rara tipologia. Assaggiando la versione '88,
non più in vendita, si rimane sbalorditi dall'estrema giovinezza,
riconoscibile nei sentori tipici dell'uva appena vinificata che mano a
mano virano verso la china; in bocca è semplicemente magnifico,
irresistibile, complesso e di persistenza infinita. Ed il suo Amarone rappresenta un connubio
perfetto fra tradizione e innovazione; il passaggio in barriques nuove per
25 mesi non lo intacca minimamente, tanto è ricco, grasso, potente,
eppure mai stucchevole, semmai appagante. Ogni nuova annata ha in sé
caratteristiche di grande personalità, ma soprattutto lascia trasparire
perfettamente la mano del produttore, ora saggia ed esperta, consapevole e
rispettosa, matura e profonda. L'Amarone '96, ultima annata prodotta, ha un
estratto che non ha confronti con nessun altro vino in circolazione (circa
45 g/l) ed una potenza alcolica di oltre 17,5 gradi. Con queste misure ci
si aspetterebbe un vino esagerato, stancante, troppo mastodontico, ed
invece stupisce per la perfetta fusione di ogni suo elemento, al punto da
nasconderne la pungenza alcolica al naso. E' un vino giovanissimo eppure
già godibilissimo, con una possibilità evolutiva incredibile, forse come
pochi altri grandi rossi italiani. La qualità dei vini di Dal Forno costringe a
ridimensionare le valutazioni che solitamente si è abituati ad attribuire
agli altri vini, per evitare di andare fuori scala. Il prezzo è
ovviamente molto elevato, ma giustificatissimo; basti pensare che da 100
chili d'uva si ottengono 15 litri di Amarone. Ma dei vini di Dal
Forno non si può parlare, non ci sono parole sufficienti a rendergli
giustizia. Quello che possiamo dire è che raramente ci è capitato di
provare emozioni così incontenibili nel degustare un vino, come quelle
che ci ha dato l'Amarone di Dal Forno. Oggi vi suggeriamo di provare (se lo riuscite a trovare e avete voglia di spendere ben oltre le 200.000
lire) l'Amarone '94 (16.5°), annata meno opulenta ma di straordinario equilibrio, che vi
catturerà con i suoi profumi di frutta secca (fico, dattero), di goudron
e liquirizia. Una volta deglutito, scoprirete cos'è una persistenza
infinita, sentirete perfettamente ripassare nella retro-olfattiva il
frutto grasso, quasi zuccherino e i toni di catrame, e coglierete proprio nel finale,
quando l'alcol e la dolcezza tenderanno a scemare, quelle note sapide e
minerali che sono caratteristica dei grandi vini e di quei luoghi, come la
Valle d'Illasi, dove il terreno è ricco di fossili, argilla, sabbia,
tracce evidenti lasciate dal mare in tempi preistorici.
|