Chi è abituato a parlare e leggere di vino, soprattutto dal
punto di vista organolettico, sa bene che l'argomento "tipicità" è
spesso affrontato come elemento caratterizzante di un certo vitigno o
territorio, o di una certa tipologia di vino. Ma quanto di ciò che viene detto
corrisponde a verità? Vediamo di intenderci su questo concetto alquanto
nebuloso: per tipicità si intende la molteplicità di elementi che
concorrono a rendere riconoscibile una determinata tipologia di vino, ovvero il
vitigno, il terreno, il clima o addirittura il microclima, la mano dell'uomo.
L'insieme di questi elementi dovrebbe costituire un qualcosa di ben determinato
e inequivocabile. D'altra parte, però, non è impresa facile definire e riconoscere la tipicità di un
vino. I disciplinari non ci vengono certo in aiuto, dato che la maggior parte
di essi dà una descrizione minima dei caratteri analitici di ciascuna tipologia,
inoltre
sono pochissime le doc che prevedono nella composizione un singolo vitigno. Sta
di fatto che la tipicità rappresenta un aspetto qualificante, tutt'altro che
trascurabile, ed il vino a denominazione di origine, prima di essere immesso al
commercio, deve essere sottoposto sia all'analisi chimica che sensoriale. Con
quest'ultima il degustatore deve dichiarare se quel vino rispecchia quelle
caratteristiche che giustifichino la sua appartenenza a questa o quella
denominazione. Ma questa è
teoria. In pratica, se escludiamo le uve aromatiche che danno ovviamente un
notevole contributo alla riconoscibilità, quelle neutre o comunque poco
caratterizzate possono mettere in difficoltà anche il degustatore più esperto,
tanto più quando il disciplinare consente il
contributo di altre varietà che ne compensino i limiti.
Insomma, la tipicità
di un vino dovrebbe corrispondere all'insieme di caratteristiche riscontrabili
nella maggior parte dei prodotti appartenenti alla stessa denominazione; ma ci
sono numerosi elementi che possono concorrere a produrre differenze rilevanti,
come le infinite variabili
dei microclimi, i diversi cloni, l'esperienza e la
competenza delle aziende produttrici, la tecnologia utilizzata. E' evidente
che, laddove venga utilizzata la barrique (che fra l'altro sappiamo dare al vino
contributi diversi a seconda del legno adoperato e del grado di tostatura),
l'influenza che questa apporta alle caratteristiche organolettiche del vino è
tale da renderne ancora più complessa e difficile la riconoscibilità. Pensate
che i disciplinari che prima non prevedevano l'uso del piccolo legno, si stanno
progressivamente "adattando" a questa nuova pratica in modo
estremamente approssimativo, con descrizioni di questo tipo: "...può
presentare lieve sentore di legno". Tutto qui. Va poi considerato il fatto
che non tutto ciò che è "tipico" è necessariamente positivo. Certi
"odori" che hanno accompagnato per generazioni molti dei nostri vini,
caratterizzandoli, rappresentavano dei veri e propri difetti tecnici. Alla luce delle nuove tecnologie, di una selezione più accurata delle
barbatelle, di sistemi di potatura più attenti, di metodi di fermentazione e
affinamento diversi (vedi rotovinificatori, concentratori, macchine per il
rimontaggio automatico, barriques, lieviti selezionati, ecc.), dovranno essere
riviste, anche dal punto di vista legislativo, le caratteristiche organolettiche
della maggior parte dei vini italiani. La riprova di quanto ho appena scritto è
data dagli assaggi delle ultime annate di Barbera, Dolcetto, Barolo, Chianti
Classico, Morellino di Scansano, per citare i più famosi, ma abbiamo
altrettante "trasformazioni" nel sud, in Sicilia, Puglia, Campania;
anche i vini bianchi del Friuli, che per decenni sono stati caratterizzati da
freschezza e immediatezza, oggi hanno in gran parte modificato il loro bagaglio
aromatico. Ed è proprio da questi mutamenti che sono nate le diatribe fra
tradizionalisti e innovatori, produttori, enologi, giornalisti e consumatori. I
tradizionalisti, in gran parte a ragione, accusano il mondo vinicolo di aver
appiattito le differenze, di avere omologato il modo di fare vino, quale che sia
la tipologia o la zona di provenienza, a danno proprio della sua tipicità e
riconoscibilità. Dall'altra parte, i
modernisti affermano che non si può non tenere conto dei progressi effettuati
negli altri paesi vinicoli, delle nuove realtà californiana, australiana,
cilena e neozelandese, che già da tempo hanno conquistato il gusto ed il
mercato internazionale. Come sempre accade, la verità, o meglio la via giusta
sta nel mezzo. E' evidente che nel nostro Paese era necessario progredire da un
punto di vista tecnico ed enologico, eliminare le cattive abitudini con cui si
faceva il vino, ma è altrettanto vero che non si può e non si devono utilizzare
metodi e tecnologie in modo indiscriminato, senza prima aver tracciato una mappa
dei terreni più vocati per questo o quel vitigno, attraverso sperimentazioni
decennali, anche a scapito di tradizioni che spesso non sono corrette. Non
dimentichiamoci che il centro-sud ha subito l'espianto di molte varietà d'uva
di elevata qualità solo perché poco produttive, varietà che sono andate
inesorabilmente perdute. Il trebbiano è ancora oggi l'uva a bacca bianca più
utilizzata, pur avendo caratteristiche organolettiche molto limitate.
Questi
ultimi vent'anni hanno provocato una scossa all'intero comparto vitivinicolo, un
mutamento radicale sotto tutti gli aspetti. Oggi il vino lo fanno gli
imprenditori, gli industriali, i tecnici. In pochi anni il vino italiano è
salito a risorsa primaria e trainante del comparto agricolo. Non si può non
tenere conto di questa realtà. E allora va rivisto anche il concetto di tipicità,
come un elemento dinamico, nuovo, da rivisitare alla luce dei cambiamenti.
Questo è un momento di transizione, lo dimostra il fatto che sta diventando più
"intelligente" l'uso della barrique, non solo in Italia, ma anche in
Australia o in California; come sempre, la novità entusiasma, toglie in parte
la capacità critica, ma col tempo gli eccessi stancano e si cerca la misura, il
giusto equilibrio. E va sfatato il mito del vitigno autoctono, come qualcosa di
rigidamente ancorato all'ambiente dove è cresciuto e quindi rappresentativo di
tipicità. Non è detto che quel vitigno, allevato in aree diverse da quella
d'origine, non possa dare risultati più elevati. Inoltre, sappiamo ormai che
molte delle uve che si trovano sul territorio italiano, non sono realmente
autoctone ma sono state importate e si sono successivamente acclimatate. Così
il cabernet esiste in Veneto e Friuli da più di un secolo, e va considerato
"italiano" al pari di un sangiovese. La Francia insegna (sono due
secoli avanti a tutti) che non c'è appezzamento nel suo territorio che non sia
stato analizzato e sperimentato. Se il Pinot Noir è coltivato solo in Bourgogne, non è perché c' è finito per caso, ma perché è stato appurato
che in qualunque altra zona della Francia non è in grado di dare risultati così
elevati e unici, e nessuno si sogna di impiantarlo altrove. Questo, in Italia, non
può ancora avvenire, siamo in piena fase di
sperimentazione; ed è necessario che sia fatta. Pensate a Bolgheri. Non era una
zona conosciuta per tradizione vinicola, nessuno avrebbe puntato su quei terreni, eppure
oggi è considerata una delle aree più vocate d'Italia; il terroir della Tenuta
San Guido, dove nasce il mitico Sassicaia, è paragonabile a quello di Château
Lafitte, nel Bordolese, ma a pochi chilometri si sono affacciate nuove realtà
come Le Macchiole e Tua Rita, che stanno sfornando prodotti di qualità
superlativa, a base di Syrah, Merlot e Cabernet; loro possono farlo, in piena
libertà, perché prima non c'era nulla, nessuna tradizione che potesse frenare
la ricerca. Pensate a vini completamente nuovi, come il Cometa
dell'azienda siciliana Planeta, un vino eccellente prodotto con un'uva
"autoctona" campana, il fiano di Avellino. Ebbene il fiano si è
dimostrato un vitigno di qualità superiore, ma non se ne conoscono le capacità e
le differenti possibilità espressive in altri territori. In Sicilia è alloctono,
esattamente come il cabernet o il pinot noir. I tradizionalisti potrebbero
rimanere scandalizzati, ma sta di fatto che, come per la maggior
parte dei vitigni italiani, non si sa cosa il fiano sia capace di dare in
regioni diverse. Ed i
primi risultati sono esaltanti, tanto più perché si è dimostrato ugualmente
"tipico" in alcune sue proprietà fondamentali. Dobbiamo
renderci conto che il vino italiano è in fase di trasformazione e di scoperta,
come un bambino appena nato. Stiamo assistendo a cambiamenti profondi su tutto
il territorio, da una parte si impiantano barbatelle di cabernet, merlot,
sauvignon, per garantirsi l'interesse del mercato estero, operazione criticabile
quanto si vuole ma in gran parte necessaria, dall'altra si rivalutano vitigni un tempo considerati di serie c,
come il montepulciano, il primitivo, il nero d'Avola, il negroamaro. Se è vero
che, per rimanere competitivi, si è dovuto strizzare l'occhio al gusto
internazionale, è altrettanto vero che oggi, la maggiore stabilità raggiunta,
consente di prendersi più spazi per la sperimentazione, che deve essere aperta,
senza preconcetti, ma sicuramente "ragionata", intelligente. La moda
dei Cabernet e Chardonnay in barrique non può durare a lungo, e noi dobbiamo
essere pronti all'inevitabile cambiamento, contando sulle nostre risorse, sulla
riscoperta di vitigni dimenticati, senza però essere
necessariamente legati al territorio d'origine, laddove non sia stata già
appurata una qualità elevata (vedi Langhe per il nebbiolo o Chianti Classico
per il sangiovese). Su questa strada si potranno, probabilmente, riscrivere i
nuovi valori, forse anche più stabili e verificabili, di tipicità.
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